
le sezioni unite della corte di cassazione “voltano” le spalle al principio di legalità
06 Marzo 2022 | news
Le SS. UU. erano chiamate risolvere il contrasto giurisprudenziale sorto tra le diverse sezioni in ordine allo strumento processuale esperibile per la revocazione della confisca di prevenzione che a seguito della sentenza 24/2019 della Corte Costituzionale aveva perduto la pertinente base legale.
L’orientamento maggioritario, Sez. 1, n. 34027 del 01/10/2020, rilevava che «pur non potendosi negare l’esistenza del generale principio per cui la “competenza esecutiva“, intesa come titolarità del potere/dovere di regolamentare eventuali questioni interpretative del giudicato che incidano su diritti soggettivi, non poteva comunque riconoscersi l’applicabilità al settore tipico della prevenzione delle singole disposizioni procedimentali contenute nel codice di rito penale in tema di esecuzione, posto che il rinvio alle previsioni di cui all’art. 666 cod. proc. pen. (in quanto compatibili) dettato dal legislatore del Codice Antimafia per la fase della cognizione (art. 7, comma 9, Cod. Ant.) non riguarda la fase esecutiva».
Ciò posto, osservava la sentenza appena citata, tutte le esigenze di “rivalutazione” di una decisione definitiva emessa in sede di prevenzione sono le stesse correlate sia all’emersione di elementi di fatto, sia a eventi di natura normativa, e devono trovare sede “naturale” di verifica giurisdizionale nei procedimenti con vocazione revocatoria disciplinati nel medesimo d.lgs. n. 159 del 2011, rappresentati dalle procedure di cui all’art. 11 (nell’ipotesi di misura esclusivamente personale) e all’art. 28 (lì dove venga in rilievo, anche in rapporto alla valutazione di pericolosità soggettiva operata in sede di cognizione, la revocazione della confisca).
In particolare, rilevava Sez. 1, n. 34027 del 2020, la procedura di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 è lo strumento introdotto dal legislatore al fine di apprezzare il «difetto originario» dei presupposti per l’adozione del provvedimento definitivo e, pur a fronte di una tipizzazione dei casi mutuata dalla disciplina generale della revisione, consente di realizzare, in via interpretativa, il necessario adeguamento del sistema della prevenzione alle particolari sopravvenienze rappresentate dalle conseguenze della sentenza n. 24 del 2019, in parte dichiarativa di illegittimità costituzionale e in parte “interpretativa di rigetto“.
In particolare, confrontandosi con il difforme indirizzo, la sentenza n. 20287/2021 ha osservato che «all’incidente di esecuzione – modellato sulla falsariga della previsione di cui all’art. 673 cod. proc. pen. – potrebbe farsi ricorso nelle sole (peraltro infrequenti) ipotesi in cui la disposizione regolatrice della condizione di pericolosità sia stata precisamente individuata in cognizione in quella di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) del cod. ant. dichiarata costituzionalmente illegittima», laddove «in tutte le ipotesi in cui il giudice della cognizione – in prevenzione – non risulti aver individuato con assoluta precisione la fattispecie legale di pericolosità o risulti aver compiuto un inquadramento “misto“, è evidente che l’apprezzamento giurisdizionale della “incidenza” del decisum del giudice delle leggi non potrebbe essere quello del mero incidente esecutivo, dovendosi necessariamente riaprire uno spazio cognitivo e valutativo, sia in fatto che in diritto» mentre, quanto all’obiezione relativa all’applicabilità del termine di decadenza di cui all’art. 28, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011, la sentenza n. 20287/2021 ha rilevato come, a fronte della incontestata assenza di una disposizione che regolamenti – nel testo del d.lgs. n. 159 del 2011 – in modo espresso la sopravvenienza di decisioni del giudice delle leggi potenzialmente incidenti sul giudicato, sia il ricorso al modello legale di cui all’art. 28, sia l’ipotesi di applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen. (sostenuta dal contrario indirizzo) «realizzano una interpretazione sistematica tesa a colmare una lacuna legislativa», sicché lì dove si ritenga applicabile, per le ragioni esposte, il modello legale di cui all’art. 28 cit., è evidente che si tratta di estrarre sul piano interpretativo dalle previsioni tipiche una «ipotesi affine ed aggiuntiva»; di conseguenza, ad avviso della sentenza, la causa di decadenza ex art. 28, comma 3, cit. «non risulta applicabile a simile caso in quanto testualmente prevista per le sole ipotesi di revocazione ‘tipizzate’ di cui all’art. 28, comma 1, cit., ipotesi che anche sul piano fenomenico rendono sostenibile l’onere di attivazione in capo alla parte privata interessata» fermo restando che un’analoga impostazione era rinvenibile in Sez. 1, n. 20156 del 22/04/2021, e in Sez. 2, n. 36403 del 16/06/2021.
Di contro, altro orientamento interpretativo cristallizzato nella sentenza n. 36582 del 28/10/2020 emessa dalla Sez. 6 individuava il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca fondato sulla pericolosità generica ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. n. 159 del 2011 nell’incidente di esecuzione nel caso in cui si faccia valere il difetto originario dei presupposti per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019.
Rilevava altresì la Sesta Sezione che il rimedio della revocazione mal si addice a «una mera presa d’atto della esistenza di accadimenti successivi al giudicato che ne travolgano la validità, quale quello correlato alla intervenuta illegittimità costituzionale della fattispecie normativa sul quale si fonda la misura». Di qui il rilievo secondo cui «anche per le misure di prevenzione deve ritenersi che l’intervento sulla misura deve spettare al giudice che ne cura l’esecuzione, recuperando dal codice di rito la normativa di riferimento e dunque adattando a tale procedimento l’incidente di esecuzione», tanto più che la soluzione contestata determinerebbe un’irragionevolezza sistematica in quanto comporterebbe diversi rimedi (e diversi discipline, anche in punto di individuazione del giudice competente) per la revoca della misura di prevenzione personale (art. 11, d.lgs. n. 159 del 2011) e di quella reale (art. 28, d.lgs. 159 del 2011).
Per il Supremo Consesso, a diverse conclusioni deve giungersi con riguardo alla confisca di prevenzione, per la quale il legislatore del 2011 ha introdotto un rimedio ad hoc, ossia la revocazione ex art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, per le ipotesi in cui l’interessato intenda far valere il ricorrere di ipotesi di anomalia genetica del provvedimento ablatorio, sottraendo, allo stesso tempo, tale provvedimento alla condizione di intrinseca “precarietà” collegata alla preclusione rebus sic stantibus in cui si sostanziava – e continua a sostanziarsi per le misure di prevenzione personali – il giudicato di prevenzione stante il fatto che la relazione di accompagnamento del d.lgs. n. 159 del 2011 descrive con chiarezza la duplice finalità sottesa all’introduzione del nuovo istituto della revocazione, volta a «fornire una disciplina compiuta, che da un lato assicuri agli interessati le necessarie garanzie, dall’altro consenta alla confisca di conservare, dopo la sua “definitività“, il connotato della “irreversibilità“».
Ciò posto, a sua volta l’emancipazione della confisca di prevenzione dal regime preclusivo “debole” è stata messa in luce da Sez. U, n. 20287/2021, lì dove ha rimarcato la sua «connaturata vocazione alla definitività, nel senso dell’irreversibile mutamento del regime giuridico della cosa per effetto della sua forzata acquisizione al patrimonio dello Stato, con conseguente spoliazione del soggetto inciso». In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che la fisiologica revocabilità delle misure di prevenzione personale, soggette al principio rebus sic stantibus, in quanto ancorate alla perdurante verifica dell’attualità della pericolosità, e regolate (già dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 e oggi) dall’art. 11, d.lgs. n. 159 del 2011 non può estendersi alla misura di prevenzione della confisca, che comporta la definitiva ablazione del patrimonio frutto di accumulazione di proventi illeciti e può essere revocata solo per il tramite della revocazione ex art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 (Sez. 6, n. 23839 del 26/04/2019) fermo restando che siffatta disposizione ha introdotto uno specifico gravame straordinario riservato ai soli provvedimenti applicativi della confisca di prevenzione con la «finalità di svincolare tale istituto dalla sfera di operatività di quello della revoca dei provvedimenti applicativi delle misure di prevenzione personali, misure qualificate da maggiore instabilità del giudicato (essendo, sotto questo profilo, parificabili alle misure cautelari personali regolate dal codice di rito)» e di «assicurare al provvedimento reale ablatorio un connotato di maggiore definitività e irreversibilità, dunque di maggiore stabilità» (Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019; conf. Sez. 5, n. 33146 del 2020).
Precisato ciò, era oltre tutto fatto presente che il comma 1 dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 definisce i casi in relazione ai quali il rimedio della revocazione può essere attivato, casi rappresentati dalla «scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento» (lett. a), dall’accertamento di fatti, con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, che «escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca» (lett. b) e dalla motivazione della decisione sulla confisca fondata «unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato» (lett. c).
Ebbene, per i giudici di piazza Cavour, visti nel loro insieme, i casi di revocazione delineati dal comma 1 dell’art. 28 cit. restituiscono una configurazione del presupposto della revocazione correlata all’accertamento di un difetto originario dei presupposti della confisca sicché restano del tutto estranee all’ambito di operatività dell’istituto patologie diverse da quelle riconducibili al genus indicato, quali, ad esempio, quelle afferenti all’iter procedimentale che ha condotto all’adozione del provvedimento ablatorio.
Tutto ciò premesso, si riteneva all’uopo rilevare come fosse decisiva, ai fini che qui vengono in rilievo, la ricostruzione del rapporto tra il primo e il secondo comma («In ogni caso, la revocazione può essere richiesta solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura») dell’art. 28 cit. essendo state, al riguardo, divergenti le prospettive emerse dal dibattito dottrinale in ordine a questo rapporto.
In effetti, secondo una prima impostazione (seguita anche dal decreto impugnato), la portata normativa del comma 2 dell’art. 28 cit. si limita a impedire che la richiesta di revocazione si risolva in mero esercizio dialettico su un novum che, valutato insieme con gli elementi già considerati ai fini dell’adozione della confisca, non risulti comunque idoneo a dimostrare il difetto originario dei presupposti del provvedimento; così interpretata, si osserva nell’ambito della medesima prospettiva, la disposizione in esame risulta inutiliter data, posto che nulla aggiunge a ciò che già chiaramente si coglie nella menzionata disciplina dei casi di revocazione.
Una diversa impostazione, invece, amplia le ipotesi di revocazione a tutti i casi in cui, pur a prescindere dalla specifica integrazione delle cause di revocazione di cui al primo comma dell’art. 28 cit., sia dimostrabile per fatti sopravvenuti la carenza originaria dei presupposti della confisca di prevenzione.
In presenza di tale duplice chiave di lettura, si notava come anche la giurisprudenza di legittimità mostrasse delle incertezze al riguardo.
Sez. 1, n. 21958 del 06/07/2020, invero propende per la tesi restrittiva sostenendo che il comma 2 dell’art. 28 in esame non introduce un nuovo caso di revocazione della misura, ma limita la rilevanza delle ipotesi delineate dal primo comma della medesima norma al solo caso in cui ne derivi il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura; la medesima sentenza, tuttavia, ritiene che la questione dell’illegittimità originaria della confisca sotto il profilo della categoria di pericolosità sociale di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011 ascritta al proposto sia proponibile – anche – nell’ambito del procedimento di revocazione, poiché alla dichiarazione di invalidità originaria delle norme incostituzionali, con effetto ex tunc, consegue la loro inapplicabilità anche in relazione a rapporti sorti anteriormente alla sentenza n. 24 del 2019.
Dunque, pur non espressamente menzionata dal comma 1 dell’art. 28 cit., la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale viene espressamene riconosciuta come idonea a integrare il presupposto della revocazione.
Nettamente propense per l’interpretazione restrittiva del comma 2 dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 sono le sentenze espressive del secondo orientamento, ossia, come si è visto, le sentenze nn. 36582/2020 e 29840/2021 della Sesta Sezione.
Al contrario, tra le pronunce riconducibili al primo orientamento, Sez. 2, n. 33641 del 2020, riconosce una più ampia portata normativa al comma 2 dell’art. 28 cit., in linea con l’opinione dottrinale che attribuisce a esso una valenza integratrice dei casi di revocazione espressamente previsti dal comma 1.
Orbene, le Sezioni Unite ritenevano di dover aderire a quest’ultima, meno restrittiva, interpretazione del comma 2 dell’art. 28 cit. deponendo in questo senso, in primo luogo, il tenore letterale della disposizione che, nel suo incipit («in ogni caso …»), delinea una “fattispecie aperta“: del tutto superfluo nell’interpretazione della disposizione offerta dall’impostazione restrittiva, tale incipit individua quale condizione legittimante della revocazione ipotesi diverse da quelle – espressione di elementi fattuali – delineate dal comma 1, purché riconducibili al medesimo tipo, ossia a fattispecie dimostrative della carenza originaria dei presupposti della confisca, fermo restando quanto già rilevato in ordine all’irrilevanza, ai fini dell’idoneità a legittimare il ricorso alla revocazione, di fattispecie non espressive di un difetto originario di tali presupposti, quali, ad esempio, il sopravvenire di una legge abrogatrice della disposizione relativa a una figura soggettiva di pericolosità, in considerazione della diversità strutturale, messa in luce, come si è visto, da Sez. U, n. 42858/2014, tra abrogazione e declaratoria di illegittimità costituzionale, idonea, quest’ultima, a dar corpo a una carenza originaria dei presupposti della confisca di prevenzione, rilevandosi al contempo che, d’altra parte, la stessa formulazione del comma 3 dell’art. 28 cit., lì dove specifica la portata della previsione del termine, è in linea con l’interpretazione qui accolta.
In secondo luogo, era osservato che, sul piano sistematico, l’interpretazione accolta attribuisce alla disposizione in esame un significato normativo di cui – come riconoscono gli stessi fautori della tesi qui non condivisa – altrimenti sarebbe priva, sicché, sotto questo profilo, risulta in linea con i canoni dell’interpretazione utile.
Di conseguenza, così interpretato, l’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 include nel proprio ambito applicativo la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale che, avendo investito in toto una delle figure di pericolosità sociale giustificatrici – anche – della confisca, integra senz’altro quel difetto originario dei presupposti per l’applicazione del provvedimento ablatorio che costituisce, nei termini indicati, condizione applicativa della revocazione.
La connotazione della declaratoria di illegittimità costituzionale, che, almeno di regola, attesta, per riprendere l’espressione di Sez. U, n. 42858/2014, l’«invalidità originaria» della norma incostituzionale, è quindi, per la Corte di legittimità, del tutto in linea con la tradizionale impostazione della giurisprudenza costituzionale secondo cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale «colpisce la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici» (Corte cost., sent. n. 127 del 1966; conf., ex plurimis, Corte cost., sent. n. 56 del 1967).
L’invalidità originaria tipica della declaratoria di illegittimità costituzionale si salda con l’art. 28, comma 2, cit., nell’interpretazione accolta, così consentendo alla decisione di accoglimento del giudice delle leggi di incidere anche sulla misura patrimoniale divenuta definitiva e, pertanto, una interpretazione di tal fatta, per il Supremo Consesso, risolve così entrambi i problemi collegati alla questione rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite in quanto, da una parte, essa offre un fondamento giustificativo, saldamente ancorato al dato legislativo, all’idoneità della declaratoria di illegittimità costituzionale a incidere su confische divenute irrevocabili, dall’altra, individua il rimedio – appunto la revocazione ex art. 28 cit. – per far valere l’invalidità originaria della norma, ossia la carenza originaria del requisito soggettivo della confisca.
Ciò posto, le Sezioni Unite, alla luce delle considerazioni sin qui svolte, enunciavano il seguente principio di diritto: «in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca fondato sulla pericolosità generica, ex art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, al fine di far valere il difetto originario dei presupposti della misura, a seguito della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, è la richiesta di revocazione, di cui all’art. 28, comma 2, del d.lgs. citato».
A diverse conclusioni, invece, gli Ermellini ritenevano che si dovesse giungere con riguardo alla confisca disposta a norma dell’art. 16 in relazione all’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011.
Era a tal proposito rilevato che, con riferimento alla disposizione ora in esame, la sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale ha ritenuto «che, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso, risulti oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” – oltre che in quali “modi” – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca», essendo stato infatti osservato, da parte del giudice delle leggi, che l’interpretazione consolidatasi dopo l’intervento della Corte di Strasburgo «permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei “tipi di comportamento” (“types of behaviour”) assunti a presupposto della misura», posto che «le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto“, di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, comma secondo, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito».
Le disposizioni censurate, pertanto, si sottraggono al giudizio di illegittimità costituzionale «nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011».
Dunque, la sentenza n. 24 del 2019, «pur in assenza nel dispositivo di una espressa declaratoria di rigetto» (come rilevato da Sez. 6, n. 29551 del 2020) ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, rilevandosi al riguardo che alcune pronunce di legittimità hanno ricondotto, per questa parte, la sentenza n. 24 del 2019 nel genus delle “sentenze interpretative di rigetto” (Sez. 1, n. 27696 del 01/04/2019) mentre altre hanno escluso tale inquadramento rilevando, in particolare, la mancanza, nel dispositivo, della formula tipica di questa tipologia di decisioni reiettive del giudice delle leggi («nei sensi di cui in motivazione» (Sez. 6, n. 27689 del 18/05/2021).
In effetti, ad avviso delle Sezioni unite, la mancanza (anche nella motivazione) della formula indicata potrebbe indurre a ricondurre la sentenza n. 24 del 2019 nel novero – non già delle sentenze interpretative di rigetto ma – di quelle che autorevole dottrina costituzionalistica definisce “sentenze di rigetto interpretative“, caratterizzate dal fatto che l’interpretazione alternativa posta a fondamento della decisione di rigetto – di regola, anche se non necessariamente, un’interpretazione “adeguatrice” – è fornita solo nella motivazione.
In ogni caso, anche a voler propendere (come – se non il tenore letterale – la ratio decidendi della pronuncia sembra suggerire) per l’inquadramento della sentenza n. 24 del 2019, nella parte qui in rilievo, nel genus delle sentenze interpretative di rigetto, caratterizzate, tra le pronunce di non accoglimento, da una maggiore “forza conformativa” rispetto al giudice comune, i giudici di piazza Cavour denotavano come i relativi effetti fossero stati puntualmente delineati dalla giurisprudenza di legittimità.
In particolare, quanto agli effetti, già Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, aveva chiarito che «la forza preclusiva della sentenza interpretativa di rigetto è rispondente ad una precisa esigenza di coerenza interna del sistema e si traduce in un vincolo negativo di interpretazione per il giudice che aveva sollevato la questione giudicata non fondata, nel senso che quest’ultimo non può attribuire alla disposizione di legge la portata esegetica ritenuta non corretta dalla Corte Costituzionale, pur restando libero di optare a favore di differenti soluzioni ermeneutiche che, ancorché non coincidenti con quelle della sentenza interpretativa di rigetto, non collidano con norme e principi costituzionali».
Un vincolo del genere, però, riguarda solo il giudizio a quo, poiché, osserva ancora Sez. U, n. 930/1995, su un piano generale le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale non sono munite dell’efficacia erga omnes propria delle decisioni con le quali viene dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione di legge, per cui assumono il valore di mero precedente e non sono vincolanti per il giudice, al quale è consentito discostarsi dall’interpretazione da esse fornita e sollevare nuovamente la questione di legittimità dell’identica disposizione, per le medesime ragioni già disattese.
In questa stessa prospettiva, Sez. U, n. 23016 del 31/03/2004, ha ribadito che le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme, non hanno efficacia erga omnes e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione mentre in tutti gli altri casi il giudice conserva il potere – dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge a norma dell’art. 101, secondo comma, Cost., purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto.
Per i giudici comuni diversi da quello a quo, dunque, viene in rilievo, come puntualizzato da Sez. U, n. 25 del 16/12/1998, non già un vincolo giuridico, ma il «valore persuasivo» della sentenza interpretativa di rigetto, che costituisce «un precedente autorevole nonché il risultato di una interpretazione sistematica in funzione adeguatrice proveniente dall’organo più qualificato in tema di interpretazione costituzionale».
Nel caso in esame, il «valore persuasivo» della sentenza n. 24 del 2019, nella parte in cui ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, è stato pienamente valorizzato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020; Sez. 2, n. 27263 del 16/04/2019; Sez. 6, n. 21513 del 09/04/2019) fermo restando che è di tutta evidenza, però, che tale «valore persuasivo» in ordine all’interpretazione adeguatrice avallata dalla sentenza n. 24 del 2019 in relazione all’art. 1, lett. b), cit. è privo di attitudine a incidere sul giudicato formatosi in relazione al provvedimento che dispone la confisca di prevenzione.
Invero, proprio per il suo collocarsi esclusivamente sul piano delle interpretazioni costituzionalmente conformi e per la indiscussa carenza di efficacia erga omnes, la sentenza interpretativa di rigetto è inidonea a rimettere in discussione il giudicato formatosi sul provvedimento di confisca di prevenzione e, in questo senso, la giurisprudenza di legittimità, in una fattispecie relativa a confisca disposta in relazione alla riconosciuta pericolosità del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, n. 159, ha sottolineato come le sentenze della Corte costituzionale, nella parte in cui dichiarino l’infondatezza della questione sollevata fornendo indicazioni interpretative che escludano il vizio di incostituzionalità, non consentano la revoca dei provvedimenti definitivi potendo «costituire solamente un autorevole punto di riferimento per l’interpretazione della disciplina in questione nei procedimenti pendenti, non anche svolgere una valenza “demolitoria” rispetto alle decisioni che hanno acquisito carattere di definitività procedimentale» (Sez. 6, n. 29551 del 2020).
Ciò posto, un esame specifico, per la Corte, deve poi essere dedicato all’ipotesi, frequente nella prassi, in cui la confisca risulti disposta sulla base di un “doppio titolo“, ossia sulla base dell’inscrizione del proposto sia nella categoria soggettiva di cui alla lett. a), del comma 1 dell’art. 1, d.lgs. n. 159 del 2011, sia in quella di cui alla lett. b).
Invero, in tali ipotesi, l’ovvia fondatezza della richiesta di revocazione con riguardo alla lett. a) cit. deve accompagnarsi alla verifica se il “titolo” di cui alla lett. b) cit. sia, rispetto allo specifico provvedimento di confisca che viene in rilievo, autonomo e autosufficiente, ossia svincolato dal sostegno giustificativo correlato alla figura di pericolosità sociale dichiarata incostituzionale e idoneo – nella prospettazione del giudice di merito – a offrire integrale fondamento al provvedimento ablatorio, in tutte le componenti patrimoniali che ha preso ad oggetto.
Ebbene, qualora tale verifica dia esito positivo, la confisca non può essere revocata, basandosi su un titolo non colpito dalla declaratoria di illegittimità, né, come sostengono alcune pronunce espressive, in particolare, del primo orientamento, il giudice della revocazione deve accertare che il provvedimento di applicazione di una misura fondata sul giudizio di cd. pericolosità generica – anche – ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), cit. sia fornito di adeguata motivazione circa la sussistenza del triplice requisito (delitti commessi abitualmente dal proposto che abbiano effettivamente generato profitti per il predetto, costituenti l’unico suo reddito o, quantomeno, una componente significativa dello stesso) necessario, alla luce della richiamata sentenza del giudice delle leggi, affinché le condotte sintomatiche di pericolosità possano rientrare in via esclusiva nella lett. b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 dal momento che, ad avviso delle Sezioni unite, sostenere che il giudice della revocazione debba rivalutare gli elementi posti a sostegno dell’affermazione dell’ascrivibilità del soggetto alla luce dei canoni interpretativi avallati dalla sentenza n. 24 del 2019 significherebbe, in buona sostanza, attribuire alla pronuncia di rigetto quell’attitudine a incidere erga omnes sul provvedimento di confisca divenuto irrevocabile di cui, come si è visto, essa è priva.