
la difesa del principio della presunzione di innocenza come antidoto agli abusi commessi contro le persone
20 Luglio 2019 | news
di Alfonso Maria Avitabile per Giustizia News 24 del 19 luglio 2019
Non prendiamoci in giro, di principi liberali tradotti nella nostra Costituzione ce ne sono ben pochi e quelli che ci sono abbiamo il dovere di tenerceli ben stretti.
La Carta del 1948, d’altronde, è l’inevitabile frutto di una mediazione politica che, pressata da istanze socialiste ed inquinata dalle scorie delle precedenti esperienze assolutistiche, mostra ancora alcune sfumature del terribile Leviatano; si pensi alla poca attenzione al libero mercato e alla proprietà privata, alla spada di Damocle della possibilità di pubblica espropriazione, alla tassazione puramente progressiva, alla iniquità della giustizia amministrativa, tutta imperniata sulla condizione di debolezza del cittadino inteso quale suddito.
In un quadro così mortificante del pensiero liberale, timide istanze dei suoi principi vi hanno fatto comunque capolino, e tra questi, non vi è dubbio che il “principio di non colpevolezza” applicato al processo penale e sancito dall’art. 27 II co. rappresenti il caposaldo di uno Stato di diritto nonché il punto di partenza della democrazia civile che si intende contrapporsi agli assolutismi che avevano, in modo nefasto, dominato le ere immediatamente precedenti.
Tralasciando le pur interessanti teorie sulla scelta di denominare tale principio come di “non colpevolezza” senza far riferimento alla più enfatica e probabilmente più corretta ed efficace formula della “presunzione di innocenza”, consideriamo che le cose siano sostanzialmente identiche per poter valutare le conseguenze pratiche che ne discendono.
Di grande interesse, comunque, la posizione di uno dei costituenti, l’illustre professore Giovanni Leone, che, ad una interpretazione autentica compiuta, riteneva si dovesse parlare di “presunzione di innocenza” per le positive ricadute che tale impostazione avrebbe avuto nella disciplina delle misure cautelari da inquadrarsi, come la loro natura di extrema ratio esige, in una ipotesi residuale, data la loro indubbia e sostanziale capacità di incidere in maniera altamente lesiva del diritto di libertà.
La scelta fu diversa e si volle dare alla figura dell’indagato/imputato “non colpevole” una accezione, per così dire, attenuata, quasi neutra, che più facilmente si collocasse nell’ambito della normativa che prevedeva la coercizione e la privazione della libertà in una fase antecedente alla definizione di una responsabilità penale accertata con sentenza passata in giudicato senza, apparentemente, colpo ferire; i danni di quella decisione, probabilmente dettata da una esigenza di coordinamento con le norme della carcerazione preventiva, ce li portiamo dietro fino ai giorni nostri.
La portata del principio della presunzione di innocenza dell’imputato, o della sua non colpevolezza, rimane comunque straordinaria; oltre al tema delle misure cautelari, prima accennato, va considerato che esso rappresenta il fondamento stesso del processo, la sua pietra miliare.
Poiché la ragion d’essere del processo penale non è quella di discernere tra gli onesti e i disonesti, né certamente di conferire patenti di moralità o di emettere giudizi etici, bensì semplicemente quella di accertare una presunta responsabilità, appunto “penale”, è chiaro che, in una visione liberale, lo Stato, laddove la scelta sia alternativa tra l’obiettivo dichiarato di punire le condotte antigiuridiche e quello di proteggere comunque l’innocente, debba, senza tentennamenti, prediligere per la seconda; questa è la sostanziale differenza con i regimi totalitari, che siano nazionalsocialisti, comunisti o comunque assolutistici, che adottano un modello che persegue la punizione di tutti i colpevoli, anche a costo di sacrificare la libertà e i diritti degli innocenti.
La presunzione di innocenza, in definitiva, deve sorreggere tutta la disciplina della formazione e dell’onere della prova, poiché ad essa spetta la funzione di dirimere ogni conflitto secondo la regola di civiltà dell’in dubio pro reo.
La difesa di tale principio, inoltre, definisce il ruolo dell’avvocato quale baluardo agli abusi che incidono sulla libertà dell’individuo da parte dello Stato. La funzione del difensore, sotto questo aspetto, assume sfumature di portata rivoluzionaria laddove si pone a guardia delle regole garantiste del codice di rito e le traduce per ciò che esse sono state in origine pensate: la più efficace forma di protezione dal pericolo degli abusi dei pubblici ufficiali.
Vale la pena comunque sottolineare che tale funzione va rigorosamente esercitata nella totale ispirazione al principio di legalità, e ciò vale, oltre che per l’avvocato, tanto per l’usciere che per l’alto magistrato, perché l’unica via per combattere la eventuale “legge ingiusta” è convincere il legislatore a cambiarla secondo le regole e gli strumenti che vengono forniti dalla democrazia; la “disobbedienza civile” o la giurisprudenza “creativa” lasciamola ai demagoghi, che siano essi improvvisati o di professione.
In quanto al giustizialismo che sembra aver invaso la nostra società, probabilmente esso non è altro che un aspetto della natura dell’uomo, forse sempre presente nella sfaccettatura del suo animo; va considerato, però, che la maggiore esposizione mediatica dei nostri tempi ne enfatizza l’impatto, con la barbara conseguenza di essere in grado di distruggere le vite degli individui con relativa facilità. Diffondere, pertanto, la cultura liberale e far assimilare, come se fosse un antidoto, uno dei suoi più importanti postulati quale il principio della presunzione di innocenza rappresenta, anche sotto questo aspetto, una sfida più che mai attuale.