
sul concetto di “impresa mafiosa” la cassazione sbanda e perde l’aderenza al principio di legalità
30 Settembre 2020 | news
di Laura Ancona
La sentenza della quinta sezione della Corte di Cassazione del 27.09.2019 nr. 10983 è stata l’occasione per un ulteriore giro di viti sui imiti della categoria di “impresa mafiosa” ai fini della confisca di prevenzione. In materia di misure di prevenzione reali, in effetti, la Corte aveva già avuto modo di affermare che è legittima la confisca di un’impresa mafiosa in quanto costituente strumento di realizzazione sul territorio degli interessi economici del sodalizio, a prescindere dall’eventuale origine formalmente lecita dei beni aziendali, trattandosi di un’attività imprenditoriale inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati sull’intimidazione mafiosa (Sez. 5, n. 32688 del 31/01/2018, Isgrò, Rv. 275225).
In tal senso, dunque, sarebbe irrilevante l’eventuale origine formalmente pulita dei beni aziendali, trattandosi di attività imprenditoriale inquinata in radice, dai vantaggi illeciti basati sull’intimidazione mafiosa. L’impresa mafiosa, infatti, non solo pratica forme più o meno intense di intimidazione verso la concorrenza, ma deve la produzione di reddito a vantaggi di origine illecita (disponibilità agevole di liquidità di fonte illecita, diffusa intimidazione esercitata sul territorio). In tal senso, giova richiamare la distinzione tra l’impresa mafiosa “originaria”, caratterizzata da una forte individualizzazione intorno alla figura dominante del fondatore, che la gestisce direttamente con metodo mafioso, l’impresa di proprietà del mafioso, che non la gestisce direttamente, ma esercita in modo mediato la funzione di direzione, avvalendosi di un prestanome, e l’impresa “a partecipazione mafiosa”, nella quale il titolare non è un prestanome, ma rappresenta anche i propri interessi.
La stessa quinta sezione, però, con sentenza nr. 12493/14 del 17.11.2013 CINA’ aveva affermato un principio ben diverso. In pratica, si assumeva come non fosse sufficiente l’accertata appartenenza del proposto alla consorteria mafiosa per fare scattare l’ablazione di beni destinati all’attività produttiva e comunque conseguiti grazie ad essa, essendo invece necessario accertare, secondo lo statuto probatorio delle misure di prevenzione, che l’azienda fosse frutto di attività illecita o che l’impresa si fosse avvalsa nello svolgimento della sua attività delle aderenze mafiose del titolare. Più in particolare, la corte affermava, che era necessario dimostrare quanto meno a livello indiziario la prova che l’acquisto originario sia stato reso possibile dall’attività illecita dell’acquirente in qualunque modo espletata purché espressione della tipica attività mafiosa ( estorsione, violenza, usura, sviamento illecito della concorrenza) e che l’accumulazione della ricchezza sia stata concretamente agevolata dall’attività illecita del titolo appartenente alla mafia. In sostanza è necessario dimostrare che l’imprenditore abbia sfruttato concretamente la sua qualità mafiosa, poiché la misura patrimoniale della confisca non sta alla qualità di mafioso dell’imprenditore piuttosto alla natura illecita del bene.
Nel caso in ultimo all’esame della Cassazione si afferma, al contrario, il principio secondo cui una. volta dimostrato che l’impresa abbia utilizzato provviste finanziarie di esponenti mafiosi si può prescindere dall’onere di dimostrare la natura illecita del singolo cespite.
L’arresto della quinta sezione appare, a ben guardare, un ulteriore allargamento della categoria di “appartenenza” di cui alla lettera a) dell’art. 4 del codice antimafia che mina la già fragile aderenza al principio di legalità. La sensazione è che la corte abbia fatto rientrare nell’ombrello del potere oblatorio di prevenzione condotte di rilievo penale, quale quella del riciclaggio, che trovano in altra sede la disciplina della reazione statuale.