
le misure di prevenzione patrimoniali irrevocabili non si conformano più al principio di legalità
05 Febbraio 2019 | news
[di Sofia Barbera]
Il Tribunale di Trapani con il decreto del 28.01.2019, in commento, ha respinto la richiesta di revoca con effetti ex tunc avanzata nei confronti di un decreto applicativo la misura di prevenzione, ormai irrevocabile, ritenendo l’impossibilità di considerare illegale una norma di legge alla luce della giurisprudenza della CEDU, compendiati poi nella sentenza delle SS.UU. della Cassazione, sopravvenuta al giudicato di prevenzione.
Secondo il Tribunale trapanese, infatti, i principi enunciati dalle Sezioni Unite nella recente pronuncia del 4.1.2018 (GATTUSO) “assumono la loro rilevanza per la funzione nomofilattica propria della Suprema Corte nei procedimenti ancora pendenti, non possono ritenersi applicabili ai procedimenti ormai definitivi”.
A ben vedere, invece, l’intervento del massimo consesso della Cassazione, disvela un vero e proprio deficit di tassatività del diritto di prevenzione: i significativi contrasti giurisprudenziali sono espressione, per ciò solo, di una non agevole lettura ermeneutica della norma applicativa della misura e dunque della scarsa chiarezza della stessa.
Nel caso in esame, la richiesta di revoca avanzata al Tribunale di Trapani della misura di prevenzione, ai sensi dell’art. 7 della L. 1423/56, si fondava sulla ritenuta mancanza ab origine dei presupposti di legge, sì da integrare il diritto alla revisione del processo, protetto dall’art. 4 co. 2 del protocollo 7 alla CEDU, nel caso di sopravvenienza di vizi fondamentali nella procedura antecedente che inficiano gravemente la decisione.
A ben guardare siffatto meccanismo restitutorio della legalità, che trae giustificazione proprio dall’art. 4 prot. Add. 7 CEDU, prescinde dall’emersione di una prova nuova legando la propria operatività esclusivamente alla constatazione di una violazione grave della procedura che ha gemmato il provvedimento giurisdizionale ed è teso alla restitutio in integrum. Il disposto di cui all’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU si presenta, così, come una sorta di clausola di chiusura dell’ordinamento atta al il ripristino della legalità violata sia formale che sostanziale.
Invero, la questione si pone sul crinale del diritto nazionale e internazionale pattizio (id est la CEDU), la cui efficacia nell’ordinamento nazionale è garantita dall’art. 117 Costituzione, a mente del quale la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.
A partire dalle note sentenze gemelle della Corte Costituzionale nn. 348/349 del 2007 è ormai ius receptum che nel sistema delle fonti del nostro ordinamento le disposizioni della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretate dalla giurisprudenza di Strasburgo, abbiano il rango di norme interposte (o se si preferisce di livello sub-costituzionale) che, attraverso il meccanismo di adattamento previsto dall’art. 117 Cost. comma 1, diventano esse stesse parametro di legittimità costituzionale delle norme di diritto interno di guisa che il giudice nazionale deve applicare queste ultime secondo un’interpretazione convenzionalmente orientata oltre che costituzionalmente conforme (ex plurimis Corte cost. m. 1 e n. 113 del 2011; Corte Cost. numeri 93, 138, 187 del 2010; Corte Cost. n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo il Trattato di Lisbona cfr. sentenza n. 80/2011).
Il parametro è dunque doppio: convenzionale e costituzionale.
Del resto costituisce dato ermeneutico consolidato quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione Edu, garantita dall’art. 19 CEDU, nonostante alle stesse non possa riconoscersi rango costituzionale (Corte cost. nr. 388 del 1999; sentenza Dorigo nr. 2800 dell’1/2/2006).
Nondimeno, nel caso di specie, ad essere oggetto di censura è il decreto del Tribunale di Trapani- sezione misure di prevenzione- emesso in data 28.06.1996 perché affetto da un vizio endemico in quanto emesso in totale assenza della dovuta base legale.
E’ evidente come il giudicato non possa rappresentare un limite invalicabile all’ammissibilità della richiesta di revoca ex tunc avanzata: ragionare diversamente significherebbe ammettere la lesione del principio di legalità, pietra angolare del diritto penale e coelemento imprescindibile dello stato di diritto. Non sono certamente estranee al nostro sistema le ipotesi di “cedevolezza del giudicato”: si pensi ad esempio all’incidente di esecuzione che permette di rivedere la sentenza definitiva laddove sia intervenuta una modifica normativa favorevole all’imputato. Nella specie può dirsi esistente un giudicato “rebus sic stantibus” il quale tradisce il dogma dell’intangibilità laddove intervenga, come nella specie, un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite in ordine ad uno dei presupposti applicativi della misura di prevenzione. Nella specie la querelle si era posta in ordine alla portata semantica e sostanziale del requisito della “pericolosità sociale”. La misura di prevenzione emessa a carico del Lipari risulta generica ed imprecisa, ovvero indeterminata nelle sue connotazioni di conoscibilità e prevedibilità, come tale in aperta violazione dell’art. 7 CEDU.
E’ in quest’ottica che può dirsi ad oggi superato il dogma dell’intangibilità del giudicato il quale viene di sovente eroso nel tentativo di ripristinare una legalità violata. Nella specie, nei confronti del Lipari, viene formulato un giudizio di pericolosità sociale nebuloso privo di sufficiente chiarezza e specificazione facilmente esposto a decisioni arbitrarie prive di qualsivoglia serio ancoraggio probatorio.
Già la Consulta, fin dalla sentenza n. 11 del 1956, seguita poi dalla Corte di Cassazione (Cass. sez I, sentenza n. 31209 del 2015 Scagliarini), ha imposto il rispetto del principio di legalità, nella sue principali declinazioni della tassatività e della sufficiente determinazione del precetto, anche nel diritto della prevenzione. Recentemente, anche i giudici di Strasburgo con la nota sentenza De Tommaso c/ Italia, hanno fortemente censurato la disciplina italiana delle misure di prevenzione perché non definita con sufficiente precisione e chiarezza come tale inidoneo a “fornire una protezione contro le ingerenze arbitrarie” nonché incapace di “consentire al ricorrente di regolare la propria condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l’applicazione di misure di prevenzione” (par. 117 della motivazione sentenza De Tommaso); il rispetto del principio di legalità consente dunque non soltanto di evitare l’arbitrio dell’autorità giudiziaria ma anche di rispettare la regola del ne bis in idem.