
i limiti della confisca senza condanna nei reati urbanistici: la grande camera fissa i paletti
23 Ottobre 2018 | Diritto europeo, news
Giunge finalmente a termine la vexata quaestio della confisca dei terreni nei reati di lottizzazione abusiva i i cui procedimenti penali si sono conclusi con sentenza di improcedibilità per estinzione del reato per prescrizione, oggetto della nota sentenza SUD FONDI C/ ITALIA. La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia – dopo un’attesa durata quasi tre anni – sul controverso tema della compatibilità della confisca c.d. urbanistica (disciplinata dall’art. 44 T.U. edilizia) con gli artt. 7, 6.2 e 1 Prot. Add. Cedu. Due i passaggi importanti nella decisione dell Corte: la natura penale della confisca impone il contraddittorio dei destinatari di essa, estranei al processo, da un lato, e dall’altro l’accertamento della rimproverabilità della condotta, a prescindere dall’esistenza di una pronuncia di condanna formale. La Corte, infatti, discostandosi dalla precedente sentenza Varvara, ha dichiarato la compatibilità con l’art. 7 della Convenzione della confisca urbanistica disposta a seguito di un accertamento che, pur non avendo le caratteristiche formali della condanna, ne presenti i requisiti sostanziali (verifica circa la sussitenza di tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, del reato di lottizzazione abusiva).
L’attuale disciplina italiana – come derivante, da ultimo, dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 49 del 2015 – ha dunque superato il vaglio della Corte Edu in relazione al profilo che appariva, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, più problematico. E pur tuttavia, detta disciplina nazionale ha incassato una condanna in relazione ad un diverso profilo di ulteriore violazione dell’art. 7 Cedu: quello relativo alla possibilità di disporre la confisca urbanistica nei confronti della persona giuridica che non abbia preso parte al procedimento penale. La Corte ha, inoltre, condannato l’Italia per la violazione dell’art. 1 Prot. Add. Cedu (diritto di proprietà) per il carattere sproporzionato della confisca urbanistica, misura obbligatoria e scarsamente flessibile. La vicenda che ha gemmato la sentenza in commento si e’ dipanata su un complesso iter processuale. Invero, Il disposto di cui all’art. 44 c. 2 T.U. edilizia dispone che “la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”.
Per lungo tempo, considerata una sanzione amministrativa, la misura ablatoria poteva venire disposta nei confronti del terzo in buona fede e non necessitava dell’accertamento di alcun coefficiente soggettivo che dimostrasse la personale rimproverabilità dell’autore del fatto materiale di lottizzazione abusiva e nemmeno di una formale pronuncia di condanna dell’autore della lottizzazione e poteva, pertanto, venire disposta anche quando il procedimento penale si estingueva per prescrizione. Nelle due sentenze relative al caso Sud Fondi (confisca dell’ecomostro di Punta Perotti) la Corte europea dei diritti dell’uomo interveniva a modificare tale stato di cose. I giudici di Strasburgo – in sintesi – dapprima riconoscevano la natura di sanzione sostanzialmente penale della confisca urbanistica, in ragione del suo carattere essenzialmente punitivo e del suo conseguire, per ordine del giudice penale, alla commissione di un reato (cfr. infra 6). Successivamente, applicando a quest’ultima le garanzie di cui all’art. 7 Cedu, si spingevano fino a richiedere la sussistenza di un legame di natura intellettiva che consentisse di collegare la penale responsabilità del soggetto al fatto di reato di lottizzazione abusiva. Il recepimento, da parte delle giurisdizioni nazionali, dei principi enunciati in Sud Fondi faceva sì che la confisca urbanistica non fosse più disposta nei confronti del terzo in buona fede e conseguisse all’accertamento di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del reato di lottizzazione abusiva. Non poneva però fine alla pratica di disporre tale misura ablatoria anche in assenza di una formale sentenza di condanna, che cristallizzasse la penale responsabilità dell’autore della lottizzazione abusiva: “per disporre la confisca prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2” – affermava la Cassazione – “il soggetto proprietario della res non deve essere necessariamente condannato, in quanto detta sanzione ben può essere disposta allorquando sia comunque accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva in tutti i suoi elementi (oggettivo e soggettivo) anche se per una causa diversa, qual è, ad esempio, l’intervenuto decorso della prescrizione, non si pervenga alla condanna del suo autore e all’inflizione della pena” (Cass., sez. III, 30 aprile 2009, n. 21188).
Della questione sulla compatibilità della misura in oggetto con le garanzie di cui all’art. 7 e 6.2 Cedu veniva, quindi, nuovamente investita la Corte Europea dei diritto dell’uomo, che si pronunciava sul punto nella sentenza Varvara; in quell’occasione, i giudici di Strasburgo sembravano propendere per la necessità di una formale sentenza di condanna onde potere infliggere la confisca urbanistica, ancora una volta qualificata come sanzione sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione. La pronuncia della Corte Edu nel caso Varvara provocava vivaci reazioni nelle giurisdizioni nazionali e ben presto venivano sollevate due diverse (e divergenti) questioni di legittimità costituzionale: la prima mirante a modificare il testo dell’art. 44 T.U. Edilizia in modo da renderlo conforme alle indicazioni di Strasburgo; la seconda tesa, invece, a sollecitare l’intervento della Corte costituzionale e, in particolar modo, dello strumento dei controlimiti, nei confronti di una pronuncia che avrebbe – in ipotesi– pesantemente pregiudicato gli interessi ambientali legittimamente perseguiti per mezzo della confisca urbanistica dalle autorità nazionali.
La Consulta, nel dichiarare inammissibili entrambe le questioni, prendeva comunque posizioni molto nette, così sinteticamente riassumibili. I giudici costituzionali si interrogavano, innanzitutto, sul valore da attribuirsi ad una isolata pronuncia della Corte Edu, su una questione in relazione alla quale non si fosse (ancora) formato un orientamento consolidato; ferma la necessità di applicare il precetto enunciato dalla Corte Edu nel concreto caso oggetto di giudizio (ex art. 46 Cedu), la Corte costituzionale sindacava l’opportunità di applicare – mediante lo strumento dell’interpretazione conforme o, più radicalmente, attraverso la proposizione di una questione di legittimità costituzionale – a casi dello stesso tipo di quello oggetto del giudizio della Corte Edu il principio di diritto, ancora ‘incerto’, da quest’ultima enunciato, a meno che esso non fosse affermato dalla Grande camera.
In secondo luogo, la Consulta prendeva posizione circa il problema della confisca urbanistica disposta in assenza di una formale condanna e, tipicamente, conseguente ad una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. “La questione da risolvere” – affermavano i giudici costituzionali – “consiste allora nel decidere se il giudice europeo, quando ragiona espressamente in termini di ‘condanna’, abbia a mente la forma del pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si accompagna a tale pronuncia, laddove essa infligga una sanzione criminale ai sensi dell’art. 7 della CEDU, vale a dire l’accertamento della responsabilità […] Come si è già ricordato, nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità. Quest’ultimo, anzi, è doveroso qualora si tratti di disporre una confisca urbanistica”. “Si tratta quindi – chiosa la Consulta – non della forma della pronuncia, ma della sostanza dell’accertamento”.
Stante il contrasto fra la posizione apparentemente assunta dalla Corte Edu – richiedente una formale condanna – e quella, invece, prescelta dalla Corte costituzionale – che optava nettamente per un giudizio di responsabilità ‘sostanziale’, di natura anche incidentale – con particolare attenzione era attesa l’odierna pronuncia della Corte Edu, nella sua più prestigiosa composizione, su una serie di casi sostanzialmente assimilabili a quello affrontato nella sentenza Varvara. A ricorrere a Strasburgo – nel caso di specie – sono, infatti, quattro persone giuridiche (G.I.E.M S.r.l. – società anche essa propietaria di lotti a Punta Perotti -, Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., Falgest S.r.l.) che si ritengono destinatari di una sanzione sostanzialmente penale – lamentano una violazione, sotto vari profili, dell’art. 7 Cedu (principio di legalità/colpevolezza convenzionale), oltre che dall’art. 1 Prot. Add. (proprietà privata), e 6.2 (presunzione di innocenza) della Convenzione.
Com’è noto, l’art. 7 della Convenzione trova applicazione solo con riferimento alla matière pénale: a quelle misure, cioè, che – indipendentemente dalla qualificazione nella legislazione nazionale – siano di natura sostanzialmente penale, sulla base dell’autonoma criteriologia sviluppata dalla Corte Edu. La valutazione circa l’effettiva natura penale della misura di cui i ricorrenti si dolgono è, dunque, requisito per l’ammissibilità del motivo di ricorso.
Ebbene – pur avendo già in due occasioni (sentenze Sud Fondi e Varvara) riconosciuto che la confisca urbanistica ex art. 44 T.U. Edilizia è una pena ai sensi della Convenzione – i giudici di Strasburgo, sollecitati dai rappresentanti dello Stato resistente, svolgono un nuovo giudizio di ammissibilità della questione, soffermandosi in particolar modo:
– sul diretto collegamento fra la misura in questione e la commissione di un fatto costituente reato, pur in assenza di un provvedimento di formale condanna per il reato stesso;
– sulla collocazione sistematica della norma in oggetto, inserita all’interno di un capo rubricato ‘sanzioni penali’;
– sulla finalità essenzialmente punitiva della confisca urbanistica, desunta dalla Corte: i) dalla stessa giurisprudenza della Cassazione italiana successiva al caso Sud Fondi che, pur affermando la natura amministrativa della misura, ne riconosce l’afflittività (il riferimento è, in particolar modo, alle sentenze 39078/2009 e 5857/2011, cfr. § 223); ii) da alcune dichiarazioni in tal senso contenute nelle observations dello Stato resistente (cfr. § 224); iii) dalla natura obbligatoria della confisca urbanistica, svincolata da qualsivoglia accertamento circa l’effettivo pregiudizio per l’ambiente rappresentato dalle opere abusive;
– sulla spiccata gravità e pervasività della misura in questione, che si abbatte non solo sulle opere ritenute abusive ma sull’intera area oggetto di lottizzazione;
– sul fatto che la confisca urbanistica venga disposta dal giudice penale, le cui decisioni sono autonome (e possono, addirittura, essere contrastanti) rispetto a quelle della pubblica amministrazione.
Per le ragioni sopra riassunte, la Corte Edu non ritiene di doversi discostare da quanto già affermato nella sua precedente giurisprudenza: la confisca urbanistica di cui all’art. 44 T.U. è, ai sensi e per gli effetti della Convenzione, da considerarsi come una sanzione penale. Sicché, per la CEDU, il fatto che una qualsivoglia misura, in qualunque modo ‘etichettata’ nelle legislazioni nazionali degli Stati contraenti, sia attratta nell’alveo della matière pénale convenzionale comporta un unico, fondamentale obbligo per lo Stato parte: quello di garantire che in relazione a tale misura siano applicate le garanzie che la Convenzione riconosce alle sanzioni penali; nel caso di specie, quelle derivanti dall’art. 7 Cedu, così come interpretato dalla Corte Edu.
Non vi è invece alcun obbligo per lo Stato di prevedere che le sanzioni sostanzialmente penali siano inflitte all’esito di un procedimento qualificato nell’ordinamento nazionale come penale, o che ad esse siano applicate procedure che prevedano garanzie diverse ed ulteriori rispetto a quelle derivanti dall’applicazione della Convenzione.
In altri termini, una sanzione formalmente amministrativa, della quale la Corte Edu abbia però riconosciuto la natura sostanzialmente penale, può certamente continuare ad essere inflitta a seguito di un procedimento amministrativo: purché tale procedimento sia dotato del nucleo minimo di garanzie correlate alla nozione convenzionale di matière pénale; e senza che in tale procedimento debbano essere fornite quelle eventuali garanzie ulteriori, che siano invece il frutto della qualificazione, nel diritto nazionale, di una sanzione come penale.
I giudici ritengono, in particolar modo, di doversi porre tre diversi quesiti:
– se per disporre la confisca urbanistica sia necessario accertare – oltre alla sussistenza dell’elemento oggettivo costituito dalla lottizzazione abusiva – un elemento di tipo psicologico (mental element/mental link) in capo al soggetto agente;
– se la confisca urbanistica possa essere disposta anche in assenza di un provvedimento di formale condanna;
– se la confisca urbanistica possa essere disposta nei confronti di soggetti (nella specie, persone giuridiche) che non siano state parti del procedimento all’interno del quale la misura è stata inflitta.
Quanto alla prima delle questioni sopra enunciate: se sia necessario un coefficiente di tipo psicologico che colleghi, anche dal punto di vista soggettivo, l’autore al fatto materiale cui consegue l’inflizione di una sanzione avente natura penale. Ancora una volta la disciplina della confisca urbanistica italiana costituisce un formidabile banco di prova dell’estensione e della tenuta del principio di colpevolezza convenzionale, desumibile – come il più ‘fortunato’ principio di legalità – proprio dall’art. 7 Cedu, eppure oggetto di non poche perplessità. Proprio la sentenza Sud Fondi – concernente, come si ricorderà, un caso di confisca urbanistica disposta dalla Cassazione nei confronti di soggetti assolti per errore inevitabile sul precetto penale, ex art. 5 c.p. come integrato dalla sent. n. 364/1988 della Corte costituzionale – rappresenta uno dei leading cases in materia; in quell’occasione, infatti, i giudici di Strasburgo si spinsero ad affermare che “l’articolo 7 non menziona espressamente un legame morale fra l’elemento materiale del reato ed il presunto autore. Ciò nonostante, la logica della pena e della punizione così come la nozione di ‘guilty’ (nella versione inglese) e la nozione corrispondente di ‘personne coupable’ (nella versione francese) sono nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esiga, per punire, un legame di natura intellettiva (coscienza e volontà) che permetta di riscontrare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato, elemento in assenza del quale l’inflizione di una pena sarebbe ingiustificata”.
L’affermazione, di notevole momento, era poi stata quantomeno ridimensionata all’interno della successiva sentenza Varvara, il cui § 70 recita: “gli Stati contraenti restano liberi, in linea di principio, di reprimere penalmente un atto compiuto fuori dall’esercizio normale di uno dei diritti tutelati dalla Convenzione e, quindi, di definire gli elementi costitutivi di questo reato: essi possono, in particolare, sempre in linea di principio e ad alcune condizioni, rendere punibile un fatto materiale o oggettivo considerato di per sé, indipendentemente dal fatto che esso sia doloso o colposo; le rispettive legislazioni ne offrono degli esempi […] L’articolo 7 della Convenzione non richiede espressamente un «nesso psicologico» o «intellettuale» o «morale» tra l’elemento materiale del reato e la persona che ne è ritenuta l’autore”.
Ebbene, la sentenza in commento fa chiarezza – con l’autorevolezza di una pronuncia della Grande Camera – in materia: essa, in particolar modo, ricostruisce i rapporti fra la lettura del principio di colpevolezza data in Sud Fondi e quella fornita, invece, da Varvara, ponendole in rapporto di regola ad eccezione (cfr. §§ 242-247). La regola è quella enunciata in Sud Fondi: sottolineando lo stretto legame sussistente fra principio di legalità, sub specie prevedibilità della sanzione, e principio di colpevolezza, la Grande camera afferma che, in linea di principio, per l’applicazione di “una pena ai sensi dell’art. 7 si richiede la sussistenza di un nesso di natura psicologica attraverso il quale sia possibile riscontrare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato”; tuttavia – come affermato in Varvara – gli Stati parte possono discostarsi da questa regola, prevedendo forme di responsabilità oggettiva fondate su presunzioni di colpevolezza.
Tali presunzioni, seppure non vietate dalla Convenzione, devono, nella materia penale, mantenersi entro certi limiti; limiti che vengono oltrepassati – affermano i giudici di Strasburgo – “quando una presunzione [di colpevolezza] produce l’effetto di rendere impossibile all’autore del fatto di difendersi dalle accuse nei suoi confronti, privandolo dei diritti garantiti dall’art. 6.2 della Convenzione”. Le presunzioni di colpevolezza nelle quali si risolvono, sul versante processuale, i casi responsabilità oggettiva – eccezionalmente ammessi dalla Convenzione – devono, in sostanza, ammettere prova contraria e consentire al soggetto agente di esercitare il proprio diritto di difesa. Enunciato così il principio generale – il nucleo minimo di garanzie fornito dalla Convenzione – la Grande camera osserva, tuttavia, come la regola generale in materia di sussistenza di un legame di tipo psicologico debba senz’altro trovare applicazione in relazione all’istituto della confisca urbanistica italiana, avuto riguardo all’applicazione giurisprudenziale della stessa successiva al caso Sud Fondi. Le Corti italiane stesse, infatti, reagendo positivamente all’input proveniente da Strasburgo, sono giunte ad affermare tanto la necessità di un legame di tipo psicologico fra l’offesa e il suo autore, quanto l’inapplicabilità della sanzione in questione al terzo in buona fede.
Quanto alla seconda delle questioni sopra enunciate: quella relativa alla possibilità di disporre tale confisca in assenza di un provvedimento formale di condanna. Era questo – come si ricorderà – uno dei punti più dolenti dell’intera questione: la sentenza Varvara sembrava avere, sul punto, preso una netta posizione nel senso di ritenere incompatibile con l’art. 7 (e con l’art. 6.2) Cedu la confisca urbanistica disposta – sulla base di un accertamento incidentale di colpevolezza – in relazione reati di lottizzazione abusiva dichiarati estinti per prescrizione.
La sentenza, più precisamente, affermava che: “la logica della ‘pena’ e della ‘punizione’, e la nozione di ‘guilty’ (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di ‘personne coupable’ (nella versione francese), depongono a favore di un’interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di infliggere la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non avrebbe senso […] sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata” (§ 71).
Se, dunque, in Varvara si enunciava la necessità di una condanna in senso formale per poter disporre una misura costituente una pena ai sensi della convenzione, a conclusioni diverse giunge la Grande camera nel caso odierno.
I giudici di Strasburgo, infatti – discostandosi dalla precedente giurisprudenza e verosimilmente sollecitati dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 49 del 2015 – aprono alla possibilità che la confisca urbanistica sia disposta a seguito di un accertamento che abbia le caratteristiche sostanziali della condanna, senza tuttavia necessariamente presentarne la forma. A tale proposito, la Grande camera osserva come “sia necessario guardare oltre le apparenze e il linguaggio adoperato e concentrarsi sulla realtà della situazione” e come, pertanto, “la Corte sia legittimata a guardare oltre il dispositivo del provvedimento, e tenere conto della sostanza, essendo la motivazione una parte integrante della sentenza” (§ 259).
Nella decisione della Corte di ritenere compatibile con l’art. 7 Cedu una condanna in senso ‘sostanziale’ gioca, inoltre, un ruolo fondamentale: la riconosciuta necessità, per lo Stato italiano, di punire gli autori di reati urbanistici in un sistema caratterizzato da una notevole complessità di accertamento degli illeciti in questione, a fronte di un breve termine prescrizionale; del rigoroso rispetto, da parte dello Stato parte, delle garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 Cedu. Per i motivi sopra esposti, la Grande camera ritiene che l’inflizione della confisca urbanistica anche qualora sia sopraggiunta la prescrizione del reato sia compatibile con le garanzie di cui all’art. 7 Cedu, purché tutti gli elementi costitutivi del reato di lottizzazione abusiva siano stati sostanzialmente accertati (§§ 260-261).
Profili di dialogo/confronto con la pronuncia 49 del 2015 della Corte costituzionale possono leggersi, inoltre, anche all’interno del § 252, nel quale la Grande camera afferma che “tutte le sentenze [della Corte Edu] hanno il medesimo valore legale. La loro natura vincolante e autorità interpretativa non può essere fatta discendere dalla composizione nella quale vengono rese”. L’affermazione – costituente un obiter dictum e inserita, significativamente, immediatamente prima dei passaggi che avallano l’interpretazione fornita dalla Consulta circa la necessità di procedere ad un accertamento sostanziale, e non formale, di tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva – suona come una ‘risposta’ ai giudici costituzionali e alle loro affermazioni circa la diversa ‘persuasività’ (beninteso, in casi diversi da quelli direttamente giudicati dalla Corte Edu, in relazione ai quali vige un obbligo espresso di conformarsi) delle sentenze della Corte di Strasburgo.
Infine, la Corte Edu viene ad occuparsi dell’ultima delle questioni a lei sottoposte in materia di art. 7 Cedu: se la confisca urbanistica possa essere disposta nei confronti della persona giuridica che non abbia rivestito il ruolo di parte all’interno del procedimento in cui tale pena è stata inflitta.
Nessuna delle società a responsabilità limitata ‘vittime’ del provvedimento ablatorio aveva, in effetti, preso parte al procedimento penale per il reato di lottizzazione abusiva, di cui erano stati chiamati a rispondere solo i legali rappresentanti. Si tratta, nell’ordinamento italiano, di una situazione fisiologica, anche dopo l’introduzione del decreto 231 del 2001: i reati urbanistici non rientrano, infatti, nel novero dei reati presupposto della responsabilità amministrativa derivante da reato degli enti.
Ebbene, i giudici di Strasburgo – muovendo dalla consolidata affermazione della distinzione della personalità giuridica dell’ente rispetto a quella della persona fisica che lo rappresenta – non esitano ad affermare, anche nei confronti della persona giuridica, il divieto di responsabilità per il fatto altrui. “Con riferimento al principio per il quale un soggetto non può essere punito per un atto relativo alla responsabilità penale di un altro [soggetto]” – si legge al § 274 della pronuncia in questione – “una confisca disposta, come nel caso oggetto di giudizio, nei confronti di soggetti o enti che non siano stati parti nel procedimento [che la infligge] è incompatibile con l’art. 7 della Convenzione”.
In sostanza, i motivi di ricorso relativi all’art. 7 Cedu si risolvono nell’affermazione: a) della compatibilità convenzionale della confisca urbanistica disposta a seguito di proscioglimento per prescrizione, previo accertamento ‘sostanziale’ della sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del reato di lottizzazione abusiva; e b) dell’incompatibilità con la Convenzione della confisca urbanistica disposta a carico dell’ente che non sia stato parte del procedimento penale nel quale tale confisca viene inflitta.
Meno sorprendenti, invero, le conclusioni cui la Grande camera perviene nel giudicare sull’asserita violazione dell’art. 1 Prot. Add. da parte dello Stato italiano. Ripercorrendo considerazioni già svolte nelle già più volte citate sentenze Sud Fondi e Varvara la Grande camera ribadisce la necessità che i provvedimenti della pubblica autorità che interferiscano con il pacifico godimento della proprietà privata siano, oltre che previsti dalla legge, proporzionati rispetto allo scopo perseguito. Sebbene la finalità di proteggere l’ambiente non possa certamente essere sottovalutata e rientri pacificamente fra quelle per le quali può legittimamente comprimersi la proprietà privata – osservano i giudici – il fatto che su nessuno degli immobili confiscati le autorità statali siano, effettivamente, intervenute, fa sorgere qualche dubbio circa l’effettiva sussistenza di un interesse ambientale sotteso alla confisca dei manufatti.
Quanto alla proporzione dell’interferenza statale, essa va valutata tenendo conto della possibilità, per le autorità statali, di raggiungere le finalità perseguite adoperando mezzi meno invasivi. Una tale possibilità – osserva, però, la Grande camera – è preclusa al giudice italiano per via della natura obbligatoria della confisca in questione, che non consente all’autorità giudiziaria di valutare l’opportunità dell’inflizione della misura, né – eventualmente – di modularla in modo da renderla meno invasiva. La circostanza che agli enti destinatari del provvedimento ablatorio non sia stata data la possibilità di partecipare al procedimento penale, inoltre, contribuisce a descrivere il quadro di una sanzione obbligatoria, poco flessibile e disposta in assenza di contraddittorio: tutte caratteristiche che si ripercuotono negativamente sulla legittimità convenzionale della misura ritenuta pertanto sproporzionata e, dunque, in violazione dell’art. 1 Prot. Add. Cedu.
Infine, l’ulteriore profilo esaminato dalla Grande camera – strettamente connesso con quello della possibilità di infliggere una pena senza un provvedimento di formale condanna – quello relativo all’asserita violazione, lamentata dal ricorrente persona fisica, del suo diritto alla presunzione di innocenza ex art. 6.2 Cedu. La Grande camera riscontra una violazione del parametro in questione; una violazione, tuttavia, verosimilmente influenzata dalle peculiarità del caso concretamente sottoposto al suo giudizio. Il ricorrente, in particolar modo, dopo essere stato condannato in primo grado per il reato di lottizzazione abusiva, era stato assolto in appello con formula piena. La confisca urbanistica nei suoi confronti era stata dunque disposta non dal giudice di merito, ma dalla Cassazione, che aveva poi dichiarato il reato estinto per prescrizione. Ebbene – affermano i giudici di Strasburgo, sulla scorta di consolidata giurisprudenza (§ 314-315) – il verdetto di colpevolezza susseguente ad un’assoluzione con formula piena, in un contesto nel quale il reato è estinto e, dunque, non può esservi istruzione probatoria, costituisce una violazione del diritto di difesa dell’imputato ed è, pertanto, incompatibile con l’art. 6.2 della Convenzione.
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, sent. 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri c. Italia
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